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I Professionisti italiani tra i loosers della crisi infinita

L’economia segna lo stato di benessere di un Paese e dei suoi cittadini. E’ questo il pilastro della teoria liberista, ma pure l’esperienza quotidiana di ogni cittadino. Secoli di economia moderna ci hanno dimostrato che le ragioni dell’economia prevalgono sulle superstizioni e sulle ideologie. Ha pure finora resistito l’assioma dell’affinità delle ragioni dell’economia con quelle della democrazia, fondata sul comune principio della razionalità delle scelte. In tal senso, tutto ciò che accade nel libero mercato è compatibile con le regole della democrazia. Come conseguenza, la politica dovrebbe astenersi dall’intervenire sui mercati per evitare di turbarne il funzionamento automatico, che assicura la massima efficienza, cioè il risultato complessivo migliore per il sistema interamente inteso. E’ questa, in pillole, la teoria neoliberista, che ha dominato negli ultimi trent’anni, tanto da diventare un pensiero unico che pervade ogni ambito della convivenza civile. Basta dire che una volta nelle costituzioni degli stati sovrani si richiamavano principi etici (eguaglianza, libertà, giustizia) ed oggi si richiama il principio di equilibrio di bilancio.
Ultimamente, però, la realtà concreta quotidiana, ma pure le espressioni più coraggiose della dottrina economica, ci dicono che si sono affermati fenomeni manipolativi e distorsivi dell’economia di mercato, che sono diventati ormai il punto di equilibrio di un sistema che si fonda sull’irrazionalità delle scelte dei consumatori e l’iniquità degli scambi. Ma tutto ciò di fatto viola i principi democratici e conduce la società occidentale ad uno stato permanente di guerra civile incruenta, dove le fazioni si combattono silenziosamente e non c’è alcuna autorità cui ricorrere per il ripristino del principio di equità. Ed allora il risultato di questa lunga crisi si può leggere come la vittoria delle logiche di profitto sui principi democratici equitativi: il capitalismo finanziario si riorganizza per massimizzare i profitti e, non riuscendo ad aumentare la produttività del lavoro, ne aumenta l’efficienza riducendone il costo. Una volta questi fenomeni colpivano i ceti più deboli che partecipavano al sistema produttivo con mansioni despecializzate; la cultura costituiva l’antidoto e la scuola e l’università una speranza concreta di riscatto. Negli ultimi anni, invece, il fenomeno ha coinvolto la classe media per eccellenza, quella che ha creduto nella terziarizzazione prima (impegnandosi nelle professioni, nel commercio o nelle attività di servizio) e nella finanziarizzazione poi (facendosi assumere da banche, società finanziarie, istituzioni di controllo). Basta vedere cosa sta accadendo al mondo delle professioni in Italia.
Il rapporto pubblicato lo scorso mese di dicembre dall’Associazione degli Enti di Previdenza dei Professionisti descrive una situazione di grave disagio, maturata dal 2005 in poi, in quella parte della società considerata finora il nucleo costitutivo della classe media italiana. Ed all’interno del mondo complessivo delle professioni, emerge l’aggravarsi del divario tra le realtà del Sud e quelle del Nord di un Paese, in cui, evidentemente, chi vince si conquista un posto in prima fila per il futuro e chi perde, invece, del futuro perde ogni prospettiva; qualche dato per dimostrarlo.
Dal 2005 al 2015 le professioni giuridiche perdono circa il 35% del reddito reale disponibile. Oggi sappiamo che i provvedimenti di liberalizzazione invece che aprire i mercati alla concorrenza europea, hanno favorito enormemente enti pubblici, grandi società e banche, ma hanno profondamente impoverito notai ed avvocati. Il tentativo di porre un rimedio concependo provvedimenti legislativi che riequilibrino le condizioni negoziali tra i professionisti e le banche sembra tardivo, così come l’idea di consentire agli avvocati di esercitare in costanza di lavoro dipendente, anche se possiamo rilevare che i privilegiati, che questa facoltà finora l’hanno avuta, in 10 anni hanno perso solo il 2% del proprio reddito reale disponibile (un decimo di quello cui sono stati costretti a rinunciare i meno fortunati colleghi che esercitano la libera professione).
Ma non è solo il dato sul reddito reale medio a dovere preoccupare.
Tralasciamo per un momento il fatto che in Calabria in media un libero professionista guadagna i due terzi circa di quello che guadagna un suo collega del Nord; tralasciamo pure il fatto che si riduce considerevolmente il reddito reale per le fasce più giovani, mentre aumenta leggermente per le fasce dai 60 anni in su; in pratica i giovani professionisti di oggi guadagnano molto meno dei giovani professionisti di dieci anni addietro, a vantaggio di chi rimane più a lungo nella professione. E tralasciamo pure che le femmine arrivano a guadagnare la metà dei maschi.
Concentriamoci invece sulla composizione numerica delle professioni italiane. Dal 2005 al 2015 i professionisti italiani sono aumentati del 21,59%, con un aumento del 48,22% dei professionisti che continuano ad esercitare dopo la pensione. Il dato è significativo del fatto che, evidentemente, le professioni hanno ammortizzato in parte gli squilibri occupazionali di questi anni. Vista la riduzione del reddito reale, infatti, solo uno stato di necessità può indurre un tale aumento, e non invece una libera scelta di convenienza. E qui va evidenziato un dato ulteriore: il sistema previdenziale professionale ha aumentato del 68% le sue entrate contributive. Il che significa che i professionisti hanno visto crescere enormemente la concorrenza interna, con un forte impatto sui guadagni ma devono sostenere un più alto costo previdenziale. Di fatto, la capacità di spesa dei liberi professionisti si è ridotta per circa il 25% per effetto della riduzione del reddito reale e per un ulteriore 15% per effetto dell’aumento dei contributi previdenziali.
Peraltro l’aumento delle entrate contributive si è rivelato provvidenziale, visto che le prestazioni del sistema sono aumentate in dieci anni del 65%, in parte per effetto dell’invecchiamento, in parte per effetto dell’aumento di prestazioni di malattia. E tuttavia rimangono gravi perplessità sulla sostenibilità del sistema previdenziale delle professioni, visto che per alcune aree il rapporto tra iscritti e prestazioni si riduce fino al 20%. Un problema che in futuro sarà sempre maggiore visto che negli ultimi anni si è manifestato un costante depauperamento delle fasce d’età più giovani ed un graduale aumento del peso della fasce più anziane. E questo è un fenomeno che si spiega, da un lato, con un progressivo invecchiamento di coorti generazionali più numerose e, dall’altro, col fatto che per alcuni ambiti professionali si giunge in età più avanzata (magari dopo essere stati espulsi dal mondo del lavoro dipendente) alla libera professione.
Insomma, basta leggere il rapporto dell’Adepp per comprendere un po’ meglio quale stravolgimento nella struttura sociale del Paese sta producendo questo stato regressivo permanente che si ostinano a chiamare “crisi”; e quanto sia fuorviante lo scontro politico che in questi giorni occupa la cronaca.

Saverio Carlo Greco

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