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Il debito pubblico e lo scudo dei parassiti

Il debito pubblico e lo scudo dei parassiti

La Banca d’Italia espone alla data del 31/12/2016 un dato di Debito delle Amministrazioni Pubbliche italiane pari a 2.217 miliardi di euro. Il dato, superiore a quello del 2015 di circa 50 mld, è pari a circa il 130% del PIL. Esattamente vuol dire che per ogni 100 € prodotti in Italia, ci sono 133 € di debiti dello Stato. I nostri creditori sono principalmente enti finanziari nazionali, a partire dalla Banca d’Italia, che detiene oltre il 30% del nostro debito; l’estero ne possiede solo il 10% circa.
Il livello di indebitamento ritenuto “sostenibile” dalla comunità politica e finanziaria internazionale è pari al 60% del PIL. Volendo applicarlo al caso italiano, con un PIL che nel 2016 ha raggiunto i 1.672 miliardi di euro, il Belpaese dovrebbe puntare a raggiungere un debito pubblico pari a 1.000 miliardi di Euro.
In pratica l’Italia dovrebbe fissare una riduzione del proprio debito pubblico di circa 1.200 miliardi di euro. Si tratta, evidentemente di un obiettivo molto faticoso da raggiungere, se si pensa che la Commissione Europea ci ha chiesto una correzione dei conti di 3,2 miliardi ed il Governo non è ancora riuscito a trovare una soluzione al problema.
Purtroppo, di debito pubblico in Italia si parla solo quando le procedure comunitarie ricordano ai nostri governi la necessità di rispettare i vincoli di bilancio concordati a livello europeo. Di fatto, il debito è sparito dall’orizzonte politico ed al suo posto è rimasta la polemica contro il rigore dei burocrati di Bruxelles o dei politici di Berlino. Ma, evidentemente, si tratta di una manovra diversiva del nostro ceto politico, che ben si guarda dall’affrontare il vero tema che interessa agli italiani: la sovranità nazionale ed il governo degli squilibri economici del Paese. Il perché è presto detto.
Ricondurre il debito pubblico entro livelli congrui significherebbe il recupero della piena sovranità politica delle istituzioni nazionali e, con esse, del corpo rappresentativo della nostra democrazia e della politica nazionale. Infatti, avere meno debito significa, innanzitutto, ridurre il costo di tale indebitamento; si consideri che passare ad un livello di indebitamento congruo significherebbe un risparmio nella spesa per interessi pari a circa 50 miliardi annui, calcolati all’attuale livello dei tassi, che potrebbero essere destinati a ridurre le tasse o a migliorare i servizi. Non solo; avere un debito pubblico congruo significa trovare in ogni momento sul mercato le risorse necessarie per fronteggiare, rapidamente, spese impreviste, come quelle relative alla gestione di fenomeni naturali come il terremoto o emergenze sociali come l’esplosione dei flussi migratori. Tutto ciò significherebbe per il Paese la libertà di governarsi senza il condizionamento dei mercati finanziari o delle istituzioni comunitarie; in una parola, significherebbe, come detto, recuperare ampi margini di sovranità nazionale.
In termini pratici, non possiamo neanche sottovalutare il grave effetto depressivo dell’attuale livello di indebitamento. La necessità, infatti, di rimborsare il debito alle scadenze attuali e di corrispondere gli interessi, per un valore pari al 5% del PIL, impone al governo nazionale di contenere la spesa pubblica, mantenendo comunque elevate le entrate fiscali. Il ceto politico ha finora raggiunto questo risultato tagliando innanzitutto le spese per investimenti (in Italia abbiamo uno dei valori più bassi d’Europa e peggio di noi fanno solo la Spagna e Cipro, due Paesi che hanno gli stessi problemi di debito pubblico dell’Italia) e, in parte, tagliando le spese per i servizi, come dimostra la riduzione delle sedi di tribunale, degli ospedali, ecc di questi anni.
Ebbene, nel breve periodo il taglio di investimenti e spesa pubblica può senz’altro servire a rispettare i vincoli di bilancio, ma nel lungo periodo sono entrambe misure che danneggiano il Paese e lo rendono più iniquo. Il taglio degli investimenti, infatti, danneggia il sistema industriale nazionale, che diventa gradualmente sempre meno produttivo. Vuol dire che l’industria italiana produce sempre meno innovazione e i beni che offre sul mercato sono sempre meno qualitativi o più costosi, di fatto perdendo competitività. Perdere competitività significa in futuro vendere di meno e quindi produrre di meno; produrre di meno significa offrire meno opportunità di lavoro. Tagliare gli investimenti, quindi, significa costringere in futuro i nostri giovani ad occupazioni meno remunerative o, addirittura, a cercare lavoro fuori dal Paese. Quello che, già oggi, abbiamo di fronte ai nostri occhi, quindi, altro non è che il risultato della miopia degli ultimi dieci anni. Ma anche il contenimento della spesa corrente ha i suoi controeffetti negativi, primo fra tutti il discredito delle istituzioni pubbliche, che per fare quadrare i conti aumentano l’imposizione fiscale e riducono il livello di servizio ai cittadini, di tal modo che i cittadini avvertono il senso oppressivo dello Stato e sviluppano atteggiamenti egoistici che sfociano in derive populistiche se non addirittura autoritarie.
E’ anche vero che manovrare il bilancio pubblico per trovare le risorse necessarie al rimborso del debito può produrre un effetto depressivo immediato, atteso che il 50% del PIL italiano è costituito dalla spesa delle Pubbliche Amministrazioni. E qui, forse, risiede la vera ragione del blocco politico istituzionale italiano. In Italia, infatti, non abbiamo una vera economia di mercato, una situazione cioè, in cui il mercato produce la ricchezza necessaria al benessere dei cittadini. Possiamo invece dire che l’Italia ha un’economia parassitaria, in cui ben 1 italiano su 2 vive della ricchezza distribuita dallo Stato. E’ di tutta evidenza che in una tale situazione la grave crisi globale ha danneggiato solo quell’italiano (dei due) che vive delle risorse prodotte dal mercato.
Insomma, possiamo dire che la scomparsa del tema del debito pubblico e l’affermazione di politiche di bilancio di corto respiro hanno consentito all’economia parassitaria di continuare a sopravvivere, mentre ha fortemente danneggiato la parte del Paese che vive dell’economia di mercato.
Riprendere dunque il tema del debito pubblico, e proporre misure per una sua soluzione in un congruo periodo temporale, significherebbe restituire equità al sistema Paese, superando una volta per tutte le logiche stataliste che hanno funzionato nel Dopoguerra, fin tanto che è durata la Guerra Fredda e c’è stato qualcuno disposto a sovvenzionare il nostro Paese.
Purtroppo, però, all’orizzonte non v’è alcuna proposta politica che contempli la soluzione al problema del debito pubblico. E’ più facile sbraitare contro il rigore, piuttosto che convincere per il risanamento dei nostri conti pubblici e del nostro sistema nazionale. Ma in questa situazione, in cui tutti temono di parlare del vero problema, ad avere gioco facile sarà il populismo, che in quanto ad inganni, manipolazioni e menzogne, non teme alcun rivale.

Saverio Carlo Greco

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