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L’Europa: tra inganni e manipolazioni?

Studiosi di riconosciuta fama internazionale sostengono che l’economia e la politica occidentale fanno un uso smodato di pratiche manipolative e ingannatorie; alcuni di essi sono stati anche insigniti del premio Nobel. Insomma, sono fonti credibili. D’altronde ciascuno di noi, se presta la necessaria attenzione, può rendersene facilmente conto. Facciamo un semplice esempio: il dibattito sulle istituzioni europee.
In un articolo del 16 marzo il giornale americano “The New York Times” ha tratteggiato il profilo di Angela Merkel. L’interesse americano era suscitato dall’imminente incontro tra la cancelliera tedesca ed il neo eletto presidente americano Donald Trump.
The New York Times incardina il proprio articolo su un interrogativo: il cancelliere Tedesco è davvero il campione del liberalismo occidentale e l’ultima colonna del nuovo ordine internazionale nato nel dopoguerra? La risposta è affidata al tratteggio del profilo della leader tedesca.
Secondo il giornale americano, sotto la leadership della cancelliera tedesca la Germania ha maturato delle ottime performance economiche, “a spese” degli altri paesi europei. All’interno del gioco a somma zero dell’eurozona, la Germania ha conseguito enormi surplus nella bilancia dei pagamenti, vendendo merci e beni ai consumatori europei. Francia, Italia ed altri paesi che una volta erano esportatori, nel frattempo, hanno arretrato.
L’economia tedesca è costruita sul principio che si debba risparmiare, più che consumare, e questo crea potenti dinamiche deflazionistiche all’intera zona Euro. Così la Germania si è rifiutata di accettare un’inflazione leggermente superiore come condizione per consentire al resto dell’eurozona di crescere. Al contrario, i delegati tedeschi nella Banca Centrale Europea si sono sempre battuti per tassi d’interesse più alti, per placare l’ira dei risparmiatori teutonici, che vedono un ritorno troppo modesto dall’investimento dei propri risparmi.
Lo sforzo continuo della Merkel di praticare una politica dei bassi salari e dei bassi prezzi ha di fatto condizionato le politiche degli altri paesi europei. Secondo The new York Times, ad esempio, il fallimento dell’agenda di riforme del premier Renzi è dovuta in gran parte alla stagnazione economica del nostro Paese (notasi che gli americani ci considerano in stagnazione economica mentre in Italia si continua a parlare di timida ripresa). Secondo il giornale americano anche l’impopolarità di Hollande sarebbe dovuta ai suoi sforzi vani di sviluppare l’economia e ridurre il tasso di disoccupazione francese.
Secondo il famoso quotidiano americano l’eurozona serve alla Germania perché fornisce un meccanismo che trasforma le esigenze economiche tedesche in un insieme di burocratiche, anonime, leggi macroeconomiche. Per questo motivo la reazione è stata così dura contro la Grecia nel 2015, che con la sua crisi rischiava di far crollare tale meccanismo. E quando i greci hanno tentato di aprire il dibattito sulla vera natura della crisi, questo ha trasformato la leadership tedesca di fatto della zona euro in qualcosa di molto più sinistro, dove ciò che è buono per la Germania non è buono per l’Europa come insieme.
E d’altronde, ci ricordano gli americani, quando si parla delle regole internazionali, l’opportunismo tedesco comporta che le regole condivise non contano, se pesano contro gli interessi della pubblica opinione tedesca. Basta guardare a come la Merkel ha trattato la crisi europea dei rifugiati. Nell’agosto del 2015 aprì le frontiere tedesche ai profughi siriani, di fatto rompendo unilateralmente le regole europee sul diritto d’asilo. Sui motivi di tale scelta ha forse pesato la necessità di riaccreditarsi al mondo intero, contro il sentimento antitedesco sorto dopo la soluzione della crisi greca, quando la Germania impose un penosissimo accordo per i cittadini ellenici. Ma qualunque fossero i motivi della decisione di aprire i confini, dopo pochi mesi la Merkel ha di nuovo cambiato idea ed ha imposto all’Europa il costo dei 3,5 miliardi di euro, necessari per chiudere il confine turco europeo ( accordandosi con l’illiberale Erdogan) e arrestare nuovamente i flussi migratori, compresi quelli siriani.
Insomma, The New York Times tratteggia il profilo di una Merkel (ed una Germania) cui non si può fare alcun affidamento per la difesa dei principi liberaldemocratici del mondo Occidentale.
Ora, la conclusione cui giunge The New York Times guarda al rapporto tra il mondo Occidentale e la Germania, sebbene l’analisi di fondo proietta l’immagine impietosa di quale sia il rapporto tra la Germania e l’Europa. Ed è quest’ultimo aspetto che a noi interessa più da vicino, attesa l’attualità del tema del valore e del significato della costruzione europea.
Sabato prossimo si celebrerà il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, con cui per l’appunto sono nate le prime istituzioni comunitarie. La ricorrenza cade in un momento storico in cui le incertezze e contraddizioni della costruzione unitaria sono giunte ad un livello di massima guardia. La Brexit, prima, e la proposta (tedesca) dell’Europa a due velocità, poi, stanno trasformando la ricorrenza in un complesso rompicapo diplomatico tra i 27 paesi europei. Molte le manifestazioni di piazza attese a Roma, capitale di un Paese in cui un giorno (sabato 18 marzo) apri la prima pagina economica del principale quotidiano nazionale e leggi del rischio default di altre due banche (venete, cioè della zona del Paese del miracolo economico degli anni Ottanta e che ha i maggiori scambi con la vicina Germania) e l’esubero di 2.000 posti del nuovo piano della compagnia di Bandiera nazionale (sebbene finita in mani arabe), delle cui operazioni di salvataggio si è ormai perso il conto.
Come dare torto a The New York Times? L’Europa in questi anni è stato senza dubbio uno strumento che una parte ha utilizzato per assicurarsi quei vantaggi nazionali che altrimenti non sarebbero mai arrivati. Ma allora dobbiamo domandarci perché la politica continua a proiettare l’immagine di un’Europa fatta di idealità e principi (vedi la narrazione del Manifesto di Ventotene), come ha da ultimo fatto il Presidente della Repubblica nel suo discorso di brindisi in occasione della colazione con i presidenti dei parlamenti dell’Unione Europea, (appuntamento caduto nello stesso giorno in cui si celebrava l’unità dell’Italia).
E’ possibile affermare, in un Paese come l’Italia, dove il divario territoriale si è drammaticamente accentuato negli ultimi vent’anni di funzionamento unitario dell’Europa che: ”Dobbiamo essere fieri di questi primi sei decenni, consapevoli delle insufficienze attuali dell’Unione, ma certi al tempo stesso, che la strada che stiamo percorrendo insieme è quella giusta”?
A leggere The New York Times dobbiamo dire di no, ed allora delle due una: o sbaglia The New York Times, oppure la politica europea (senza eccezione per quella italiana) con la sua retorica celebrativa inganna e manipola ancora una volta i propri cittadini.

Saverio Carlo Greco

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