Accesso agli atti – Mancata risposta nei termini – Omissione di un atto di ufficio

Accesso agli atti – Mancata risposta nei termini – Omissione di un atto di ufficio
Capita purtroppo sempre più spesso che, dinanzi all’inerzia della Pubblica Amministrazione, pur davanti ad un atto dovuto, i cittadini si sentano in una situazione di impotenza che sembrerebbe non lasciare strumenti giuridici di tutela. In realtà non è così, poiché la legge prevede che una risposta motivata vada sempre data e il pubblico ufficiale e/o l’incaricato di pubblico servizio possa essere chiamato a rispondere anche penalmente. La Corte di Cassazione, Sezione VI, con la sentenza n. 42610/2015 ha ribadito il principio ormai pacifico secondo cui, in tema di delitto di omissione di atti d’ufficio, il formarsi del silenzio-rifiuto alla scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato costituisce un inadempimento integrante la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie di reato. La fattispecie di cui all’art. 328, comma 2, c.p. prevede infatti che “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa”.
La norma citata incrimina non tanto l’omissione dell’atto richiesto, quanto la mancata indicazione delle ragioni del ritardo entro i trenta giorni dall’istanza di chi vi abbia interesse. La disposizione dell’art. 328 c.p. mira a tutelare il privato che intenda ottenere un risultato utile in relazione al rapporto amministrativo tra lui e la pubblica amministrazione, onde il concetto di "atto di ufficio" deve intendersi nel senso di atto dovuto dai pubblici poteri quale risultato concreto del loro agire, cioè quale effetto positivamente apprezzabile del dovere di attivarsi per la realizzazione dei fini istituzionali dell’ente pubblico. Ne consegue che rimangono al di fuori della tutela legale quelle richieste che, per mero capriccio o irragionevole puntigliosità, sollecitano alla pubblica amministrazione un’attività superflua e non doverosa, la quale non è destinata a spiegare alcuna necessaria incidenza sul rapporto amministrativo, già ben definito nei suoi contorni essenziali.
L’omissione dell’atto, in sostanza, non comporta ex se la punibilità dell’agente, poiché questa scatta soltanto se il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio), oltre a non avere compiuto l’atto, non risponde per esporre le ragioni del ritardo: viene punita, in tal modo, non già la mancata adozione dell’atto, che potrebbe rientrare nel potere discrezionale della pubblica amministrazione, bensì l’inerzia del funzionario, la quale finisce per rendere poco trasparente l’attività amministrativa. In tal senso, la stessa formulazione della norma, che utilizza la congiunzione "e", delinea una equiparazione ex lege dell’omessa risposta che illustra le ragioni del ritardo alla mancata adozione dell’atto richiesto.
Ne discende, conclude la Suprema Corte, che la richiesta scritta di cui all’art. 328, comma secondo, cod. pen., assume la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell’atto o l’esposizione delle ragioni che lo impediscono, con il logico corollario che il reato si "consuma" quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l’atto richiesto sia stato compiuto, o senza che il mancato compimento sia stato giustificato.
Rispondere ai cittadini, dunque, non è solo un fatto di cortesia.
Avv. Raffaele Scionti
SLCV