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Agevolazione prima casa – importanza della residenza della famiglia

 LA CASSAZIONE TRIBUTARIA N.1334 DEL 28.6.2016: UN’OCCASIONE PERDUTA PER LA SUPREMA CORTE CHE AFFERMA UN PRINCIPIO MA NE VANIFICA LA SUA APPLICAZIONE, AI DANNI DEL CONTRIBUENTE

SLCV ha assistito, solo dinanzi alla Suprema Corte, un contribuente cha aveva acquistato insieme a sua moglie, in regime di comunione legale, un immobile, dichiarando di volerlo adibire a prima casa e rendendo, al momento della stipula, le dichiarazioni di cui alla L.118/85 (di non possedere altro immobile nello stesso comune, di non aver usufruito delle agevolazioni prima casa). Nessuno dei coniugi aveva, al momento dell’acquisto, la residenza anagrafica nell’immobile acquistato, e dopo la stipula dell’atto solo uno dei due ve la trasferiva. Al coniuge che non la trasferiva, perché residente per ragioni di lavoro altrove, erano stati revocati i c.d. benefici “prima casa”, applicate le sanzioni e quant’altro.
Il contribuente ha ritenuto di impugnare il provvedimento fino al terzo grado del giudizio, avendo, l’Agenzia delle Entrate prima, ed i giudici di primo e secondo grado poi, violato la normativa citata che, in nessuna parte, fa riferimento alla residenza anagrafica, ma pronuncia esclusivamente la parola “abitazione.
La giurisprudenza di Cassazione aveva, infatti, già espresso in diverse occasioni, a far tempo dal 2009, il proprio orientamento, se vogliamo interpretativo, della norma applicata erroneamente dall’Agenzia delle Entrate, e l’ha espresso tenendo a riferimento la normativa più generale del codice civile (art.144 c.c.) e dell’art.29 della Costituzione a tutela della famiglia, dicendo espressamente che a tale norma si deve allineare l’interpretazione dell’art.2 della L.118/85 e che più che alla residenza occorre fare riferimento al luogo ove è stabilmente presente il nucleo familiare.
In realtà, nel caso in questione, i coniugi avevano acquistato il bene in regime di comunione ed, all’interno di questa comunione, avevano “concordato l’indirizzo della vita familiare e fissato la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa” decidendo che solo uno di essi trasferisse la propria residenza anagrafica, poiché l’altro, il ricorrente, per motivi di lavoro viveva a parecchi chilometri di distanza. Tale comportamento è perfettamente allineato alla disposizione di cui all’art. 144 c.c.
La Suprema Corte, ha in questa pronuncia, confermato il proprio orientamento,citandolo espressamente “il Collegio ritiene di dar corso al più recente orientamento secondo cui il requisito della residenza va riferito alla famiglia” ma lo ha, nello stesso momento, indebolito perché ha contestualmente ritenuto che della coabitazione dei coniugi in quell’immobile e dell’aver in quell’immobile concentrato la propria famiglia, andasse data una prova.
Peccato che dare quella prova non fosse cosa facile, poiché in quella famiglia non v’erano figli e chela Corte non abbia ritenuto che se i coniugi erano ed hanno continuato ad essere sposati ed a mantenere il regime della comunione legale, e se per uno dei due il trasferimento della residenza era stato sufficiente per godere dei requisiti della prima casa, intendendo questa come l’abitazione della sua famiglia, doveva essere presunta la collocazione della famiglia anche per il coniuge ingiustamente sanzionato.
Ciò perché la diversa residenza di un coniuge – che è spesso quello che più sopporta i disagi di una diversa residenza nell’interesse della famiglia – non può implica una rinuncia alla comunione legale e familiare, stato di fatto che dovrebbe essere sempre presunto e non necessitante di alcuna prova.
Come capita sovente, la Suprema Corte, troppo presa dalla una valutazione acritica e tecnica delle pronuncia giudiziali impugnate, nel confermare un principio di diritto corretto e sacrosanto se né è poi, contemporaneamente allontanata vanificandone del tutto l’applicazione pratica.

Avv. Alessandra Villecco
SLCV

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